venerdì 18 febbraio 2011

A Sandro




Devo un grazie a Botticelli, perché ha avuto l’inconsapevole merito di aver spazzato via senza rispetto il mio entusiastico (fin troppo entusiastico per essere credibile) proclama semestrale di essere diventata confortevolmente insensibile.

Ma cominciamo dall’inizio, così come si aspetta che sia. Sto trotterellando da un’opera all’altra nella galleria degli Uffizi. Ho già passato le prime sale, quelle dedicate alle opere di Giotto e Cimabue (che più che una vera ammirazione, hanno suscitato in me un sentimento di tenerezza nei loro confronti); ho anche attraversato la sala dove, con mio stupore subito seguito da delusione, vengo a conocenza che un’opera di Paolo Uccello che ho sempre ammirato non è visibile perché sottoposta a restauro. E dire che nemmeno ricordavo fosse esposta lì... ma questo non basta a smorzare il mio disappunto. Proseguo la visita rallegrandomi della presenza del celebre dittico di Piero della francesca che rappresenta Federico da Montefeltro e Battista Sforza. Cosa mi attraeva di questo dipinto? Il naso del Conte. Per parecchio tempo mi domandai perché non ne avesse addolcito l’assurda conformazione. Solo qualche tempo dopo scoprii la motivazione ma ormai il danno era fatto: conoscevo l’opera più o meno a memoria. Ho continuato la visita mostrando insofferenza per la quantità di opere di Filippino Lippi, quando tutto ad un tratto, iniziano a mostrarsi a me dei dipinti di Botticelli. Con noncuranza, quasi con incoscenza, oltrepasso l’uscio che divide due sale e subito sulla sinistra un’assembramento di persone accalcate davanti ad un ingombrante quadro protetto da uno spesso vetro, non può fare a meno che attirare la mia attenzione. Intuisco appena la presenza de “la nascita di Venere” e mi costringo a distogliere lo sguardo per non rovinarmi la vista del quadro, raggiungendolo dalla posizione defilata in cui mi trovo. Mi volto rapidamente verso la parete che si trova alle mie spalle e mi lascio scappare, spero sufficientemente sottovoce, un’esclamazione forse un pò troppo colorita che qui riporterò come “perdindirindina!”. Alzo lentamente lo sguardo sull’immensa tela che mi sovrasta e mi stordisce a colpi di colori vivaci e di linee morbide. Mai vista in vita mia. L’autore è sempre lui, Botticelli. La pala di San Barnaba (intuile cercare immagini su internet, non perché non se ne trovino, ma nessuna rende minimamente l’idea di come sia questo quadro dal vivo). Nemmeno mi accorgo che ci sia l’onnipresente Maria col bambino, la mia attenzione è tutta per i pesanti drappi di velluto, per i marmi sullo sfondo e per la figura di san Michele. Un viso ed un’espressione non descrivibili, che ti fanno solo sperare che l’autore non abbia usato un modello per quel personaggio, perché in fondo non vuoi credere che una tale bellezza possa essere stata umana e di conseguenza umanamente destinata a sfiorire. Torno in me dopo aver notato una delle “guardie” (non so se definirle tali.. in realtà non so come si chiamino gli impiegati dei musei che non fanno altro che star seduti in un angolo della sala a guardare per terra con lo sguardo perso in chissà quali pensieri) che si accosta al piccolo corrimano che tiene distanti le persone dai quadri. Forse mi son avvicinata troppo, o forse son rimasta troppo tempo pietrificata lì davanti, nemmeno avessi visto la Medusa in squame ed ossa e probabilmente voleva solo accertarsi che fossi ancora cosciente. Balzo all’opera successiva un pò imbarazzata quasi mi avessero scoperta con “le mani nella marmellata”. Osservo distrattamente gli altri quadri, forse sempre di Botticelli o forse no, finché un’altra monumentale opera mi afferra prepotentemente e mi costringe a sedermi di fronte a lei ad osservarla: si tratta di un trittico davvero imponente di un certo Van der Goes. Si tratta del trittico Portinari. E anche in questo caso le immagini reperibili su internet non fanno il loro dovere. Dal vero quel quadro è totalmente soffocante: i volti accigliati dei contadini, il bambinello che più che adagiato al suolo dopo la nscita, sembra caduto in terra per caso. I colori sono spenti ma pieni. Non è bello nel senso moderno del termine, perché è tutt’altro che gradevole. Ma al contempo si capisce che non è nemmeno stato volutamente creato così inquientante. E l’insieme di questi controsensi, al mio sindacabilissimo giudizio, lo rende davvero emozionante. Liberatamenti dalla morsa di quest’opera, guardo gli altri quadri ripercorrendo il perimetro della sala consapevole di avvicinarmi sempre più a ciò che sto aspettando. Sembra un gioco di corteggiamento: so benissimo che gli altri non mi interessanto, io punto a lui.. ma per rimandare ancora di più l’incontro, pur sapendo che sarà gradevolissimo, mi concedo degli sguardi in giro, crogiolandomi nell’attesa che a volte riesce ad essere ancora più prodiga di emozioni dell’evento stesso. Ed è qui che succede quello che non mi aspetto. Non avevo dimenticato solo la presenza del quadro di Paolo Uccello. Ne ho scordato uno ben più celebrato. E mi ritrovo davanti a lui totalmetne disarmata, vis-à-vis. La reazione non è immediata, mi serve qualche secondo per realizzare. Indietreggio un paio di passi per guadagnare una visione d’insieme migliore, mentre riesco benissimo ad accorgermi del sorriso che mi si sta disegnando sul volto. Gli occhi diventano più lucidi. Ma non verso nemmeno una lacrima. La mia non è commozione. La sensazione che provo è più simile alla più sincera gioia che si può provare ritrovando dopo tanto tempo un amico dimenticato. Ho sempre preferito “La primavera” alla “Nascita di Venere”, ma non immaginavo a tal punto.

Visto che ci sono, vorrei anche ringraziare l’inglese che ho incrociato sul pullman Firenze/Pisa perché mi ha dimostrato che esistono ancora uomini affascinanti come James Dean. E ancor di più, che salgono le scale come Anthony Perkins.