lunedì 28 dicembre 2009

E il pranzo non era nemmeno un granché...



Se solo avessi capito prima che dipendeva tutto da me, avrei agito diversamente. Perché porsi dei limiti? E' scoraggiante non credere in se stessi, ancora più di vedere che gli altri fanno lo stesso. L'unico modo per ricredersi è dimostrarsi di non avere limiti. Io fin'ora me ne ero posta. Spesso li ho difesi, quei limiti, nascondendomi dietro barricate di giustificazioni e mi lasciavo aiutare, non capisco più se coscientemente o no, ad accatastare sacchi di sabbia e scuse per rafforzare il mio giaciglio. In fondo era comodo così. Poi è arrivato il vento. Ho strappato quei sacchi e la sabbia è volata via. Come le scuse.

Ecco che mi son decisa a fare una cosa che rimandavo da troppo, a causa della mancanza di compagnia, della mia inesperienza con le autostrade, al fatto che la mia è pur sempre un'auto un po' datata e poco sicura (quando l'hanno costruita l'elettronica e gli acronimi non andavano ancora di moda). Ma cosa principale, rimandavo perché richiedeva un qualche tipo di impegno. Invece ho percorso 200 km per andare a pranzare in un paesino abbarbicato sui Nebrodi e altri 200 km per essere a casa in orario per il the delle cinque servito in ritardo di un ora. In solitaria. Nel senso che nemmeno Lemmy ha potuto tenermi compagnia perché l'autoradio per protesta ha smesso di funzionare. Mi avesse almeno detto l'oggetto della protesta avremmo potuto tentare di raggiungere un accordo, ma quando cercavo il dialogo con lei, mi rispondeva ogni volta con una voce diversa. L'ho fatto. Non è che si tratti di niente di epocale, nessuna svolta significativa, niente passaggio cruciale della mia esistenza, ovviamente. É solo una piccola cosa, ma lo è ora che la posso accantonare nel cesto delle "cose già fatte". Adesso che posso dire: "Beh, era tutto qui? e dire che visto da lontano pareva una evento così complicato da gestire". Ma per capire le cose e farsi un idea di come affrontarle bisogna vederle da vicino. E per vederle da vicino non intendo attrezzarsi di un teleobiettivo o di un binocolo; serve vederle fisicamente da vicino, sbatterci contro se serve anche a costo di ritrovarsi con qualche livido. E tu, cesto delle "cose già fatte", forse è meglio se inizi a preoccuparti.


Grazie a Chourmo per la foto. ^_^

venerdì 11 dicembre 2009

Quelli che... . Io no.

Un giorno una persona mi disse una frase che mi fece pensare: "accidenti..che cosa triste..ma davvero si può crederlo?". Lo stupore e l'espressione inebetita materializzatasi sul mio volto durarono poco. La mia stima per quella persona negli ultimi tempi aveva già subito un crollo secondo solo a quello della borsa nel '29, quindi la cosa non poteva turbarmi più di tanto. Pochi giorni dopo, sull'onda dei soliti discorsi esitenziali, un'altra persona dichiarò più o meno di credere allo stesso concetto. Qui rimasi a riflettere sulla vicenda un pò di più, non potendo trattenermi dal pensare di nuovo che fosse davvero un modo triste di vedere la vita. Al terzo interlocutore che affermò "nella vita bisogna accontentarsi", sono esplosa. Dopo aver ripulito per bene la mia stanza, son tornata a riflettere. Qualcosa non andava. E soprattutto mi colpì il fatto che ognuno aveva tirato in ballo questa teoria di sua spontanea volontà. Non c'era stato alcun accenno da parte mia. E la cosa peggiore è stato sentirlo dire all'ultimo dei tre, la persona che ritenevo e continuo a ritenere, più degna di stima.
La felicità sta nell'accontentarsi, mi hanno detto. Immagino che a vederla da un certo punto di vista potrebbe essere condivisibile: se si continua sempre a cercare altro, quello che si ha non basterà mai e si sarà sempre insoddisfatti. Ma (perché io ci vedo un ma) il piacere di raggiungere un obiettivo non si vede valutare? L'energia che potremmo riuscire a tirar fuori per raggiungere qualcosa, le idee che dovremmo inventarci, un pò di sana adrenalina da competizione e la soddifazione di avercela fatta, dove li mettiamo? E pur togliendo l'ultimo passo, ovvero la soddisfazione, perché ovviamente ci può stare di non riuscire a fare ciò che ci eravamo prefissati, il resto non conta? Una eventuale sconfitta non vale il tentativo di provarci? E il dispiacere di una sconfitta può essere tanto difficile da sopportare da non poter correre il rischio di provarci pur sapendo che il piacere della vittoria può essere immenso? Ed ancora... come faccio a sapere "quando" devo accontentarmi? Non trovo molte risposte. L'unica che mi viene in mente, ma più che una risposta è una motivazione alla scelta di accontentarsi è la seguente: ci si accontenta quando si ha bisogno di qualcosa. Se si ha bisogno di lavorare, ci si accontenta di un lavoro sottopagato. Ma una giustificazione del genere mi pare impossibile da applicare ad ogni sfaccettatura della nostra vita. Accontentarsi.. in tutto? Significherebbe che abbiamo bisogno di tante cose nella vita. Io invece penso che i bisogni nella vita siano quelli base.. quelli che ci permettono di sopravvivere. Per il resto è bello sentire di aver voglia di qualcosa di più. Non di averne bisogno. Se si vuole qualcosa, una cosa specifica, non ci si può accontentare della copia scadente. Se si vuole qualcosa, ci saranno necessità e motivazioni particolari che renderebbero l'accontentarsi di un'altra cosa, solamente simile al nostro obiettivo, ben più deludente del non riuscire a raggiungere l'oggetto del nostro desiderio. Tuttavia ho preso in considerazione una variabile da non sottovalutare: i 3 personaggi di prima, quelli che si accontentano, hanno accumulato sulle spalle alcuni lustri in più rispetto a me. Non so quanto questo possa incidere, se le delusioni accumulate nel tempo facciano diventare meno assetati di bellezza e felicità. Non lo escludo. E questa volta l'espressione inebetita e lo stupore impiegheranno qualche minuto in più ad andare via.